Qualche tempo fa ho letto un articolo della scrittrice Lidia Ravera, in merito al dibattito che da mesi coinvolge la società civile del nostro paese e che fa perno su questa domanda: “Cosa aspettiamo a ribellarci?” Una domanda che ci siamo posti più volte nel corso di questo lungo anno.
Vedendo i documentari scelti per il concorso della terza edizione del nostro festival ci si accorge che l’indignazione esiste, ma non ha più i mezzi per potersi esprimere. È diventata invisibile. Forse per questo abbiamo scelto come tema del terzo concorso internazionale del SalinaDocFest Gli invisibili, ad indicare una massa incandescente di persone, primi fra tutti noi documentaristi, che dietro i riflettori della televisione cercano disperatamente, spesso senza esito, di far sentire la loro voce.
Invisibile è Dan, un senza tetto rumeno per le vie di Barcellona (En enero, quizàs), che aspetta i tempi della moratoria imposta dal governo spagnolo per poter trovare un lavoro e ricominciare una vita normale; invisibile è il piccolo Mahmoud che sogna di diventare un acrobata del Circo Nazionale Egiziano del Cairo (Above the Gound) o i cinque giovani serbi “persi nella transizione” della vecchia Jugoslavia alla ricerca di un paese che non esiste più (Lost in transition).
Invisibile, perché fuori dalla morale comune, è il rapporto d’amore, ad un tempo morboso e tenero, tra un padre e un figlio, Vannino e Salvatore, entro l’interno di una casa di periferia di Palermo (Padre nostro); invisibile è il mondo contadino calabro arrestatosi sui lunghi tempi dell’attesa e della rinunzia (Preparativi di fuga) o la storia della sinistra italiana perdutasi tra le reliquie di un trasloco iniziato molto tempo fa e mai portato a termine (Il trasloco del Bar di Vezio).
Fare luce sulle ombre sembra oggi la missione dei nuovi documentaristi europei: sulle donne che non tacciono (Ragazze la vita trema), che non si limitano al lamento ma oppongono alle voci del potere il punto di vista alternativo di chi ancora dice: “Io non sono così”; sulle fiere madri delle desaparecide italiane che ancora chiedono giustizia al processo europeo contro i militari argentini responsabili del sequestro e dell’omicidio delle proprie figlie (Noi che siamo ancora vive).
E ancora sulle donne siciliane emigrate sessanta anni fa a Montreal per andare a raggiungere, spesso con dolore e delusione, i mariti sposati per foto e per procura (Ho fatto il mio coraggio); e sui vecchi e i giovani di Gibellina, paese dell’entroterra siciliano devastato dal terremoto del ‘68, che ancora attendono la ricostruzione delle proprie case e della propria memoria per poter elaborare il lutto e chiudere i conti con il passato (Earthquake ’68 – Gente di Gibellina).
Memoria, donne, emigrazione: sono i tre fili rossi che uniscono tra loro la selezione. Perché quando la verità si rovescia in menzogna e il potere del linguaggio si identifica tout court nel linguaggio del potere, l’unica ancora di salvezza sembra il rigore della documentazione – ricorrente in questi documentari l’uso del repertorio come argine alla deriva delle interpretazioni – e il recupero della memoria.
Solo ricordare come eravamo può aiutarci a capire come siamo e come forse saremo. È quella incrinatura dello sguardo che Changez, il protagonista del romanzo Il fondamentalista riluttante, intravede negli occhi di Erica. L’incrinatura degli occhi di noi occidentali, che troppo spesso distogliamo lo sguardo e non riusciamo a vedere più. Basta un attimo, invece, per riattivare la memoria e far riaffiorare il ritorno del represso a lungo sepolto.
Come quei pugni di sabbia gettati sulle pupille dello spettatore che Roberto Saviano, uno dei primi tra gli ospiti del SalinaDocFest, attribuisce ai grandi documentari di Vittorio De Seta, il padre invisibile del documentario italiano. In un primo momento gli occhi ti bruciano, poi li stropicci e alla fine vedi meglio.
Questo può fare oggi il documentario. Farci aprire gli occhi sul paese reale, tanto più reale quanto più invisibile, perché oscurato dai riflettori dei mezzi di comunicazione. Un paese che sconta giorno dopo giorno la distanza tra le parole e le cose, la mancanza di connessione dello Stato con i problemi reali della gente.
“È facile dimenticare e farci dimenticare. L’oblio è lo strumento più spietato in mano al potere”, scriveva il poeta Franco Fortini. Far riemergere la memoria dagli abissi dell’oblio e fare luce sulle zone invisibili della realtà è l’unica strada che abbiamo per tentare di ricostruire un contro orizzonte e sentirci parte di un paese, che è stato, e può ancora tornare ad essere, un grande paese.
Giovanna Taviani