Dei sogni dell’adolescenza di Anpalagan ne conosco uno per nulla speciale: voleva stabilirsi, con tutto il suo mondo, in Inghilterra, un’altra isola, studiare, lavorare e diventare ingegnere. Ingegnere informatico.
Aveva tutte le qualità per riuscirci, ma gli è stato impedito senza alcuna spiegazione. Il mondo, quello grande, gli ha detto: “Tu no”. E basta. È finita lì.
È una delle più grandi ingiustizie di cui sono stato testimone diretto.
Sì, esistono ingiustizie anche più grandi. Ma io credo che ognuno di noi abbia il dovere di occuparsi di quello che gli capita sotto il naso.
Se no, tanto vale restare a guardare il mare credendo di essere dei poeti.
G.M.Bellu, I Fantasmi di Portopalo
Proteggete le nostre verità – Introduzione alla IX Edizione
«Difendere le proprie idee è da sempre il compito degli intellettuali. Allora bisognerebbe proteggere chi fugge o è perseguitato per le proprie idee». È questo, secondo il filosofo e saggista Todorov, da anni trasferitosi a Parigi, il nuovo compito degli intellettuali di fronte a quanto sta accadendo nel Mediterraneo. Ed è per questo che ho voluto dedicare il mio pezzo introduttivo a Franco Fortini, e al suo monito, necessario ieri come oggi, «Proteggete le nostre verità».
Per proteggere le nostre verità abbiamo pensato a un’edizione incentrata sul tema Conflitti e Periferie. Un anno difficile, quello che stiamo vivendo, apertosi con la strage di Charlie Hebdo e proseguito con l’aumento vertiginoso di chi fugge dalle dittature, dalla miseria e dall’oppressione: sessanta milioni di persone in cerca di asilo nel pianeta, una vera e propria nazione fantasma, il ventiquattresimo stato più popoloso nel mondo. Inesistente.
Pensavamo, con Giovanni Maria Bellu che sarà con noi come Presidente dell’“Associazione Carta di Roma”, nata nel 2011 per dare attuazione al protocollo deontologico sull’informazione corretta in tema immigrazione, che tragedie come la strage di Portopalo, avvenuta nel Natale 1996 con la morte di 300 clandestini e il silenzio dell’Italia intera, non sarebbero mai più dovute accadere. E invece, dall’inizio dell’anno a oggi, il Mediterraneo è diventato la tomba più grande del mondo. In venticinque anni 21.439 migranti sono annegati nel mare che lambisce le nostre coste. Un esodo senza precedenti.
Non possiamo più voltarci dall’altra parte. La solidarietà è rivoluzionaria, ha detto Papa Francesco. Proviamo a sentirci di nuovo umani, e proviamo a farlo dai bordi del mondo, dalla nostra isola di Salina. Un tema centrale, quello della solidarietà nei confronti dei migranti, che è al centro dei numerosi corti in gara per la seconda edizione del nostro Malvasia Contest “Isolani sì, Isolati no!”, realizzati da giovani isolani di tutta Italia, che sentono di dover dire basta alla globalizzazione dell’indifferenza. Ed è anche al centro della maratona musicale a favore della costruzione del primo archivio digitale del documentario per le scuole dedicato ai migranti del mondo, cui hanno aderito musicisti di fama internazionale, impegnati come noi nella difesa dei nuovi dannati della terra e nella salvaguardia della grande tradizione del Mediterraneo, per non dimenticare quando gli emigranti eravamo noi.
Ce lo ricorderà Ascanio Celestini – da sempre cantore della storia narrata dal punto di vista di chi vive ai margini -, che vogliamo premiare per la sua interdisciplinarità e per il suo essere al bordo dei linguaggi.
E lo farà con la sua voce, il suo racconto orale, come fece qualche anno fa, di fronte al molo di Lingua, il grande Mimmo Cuticchio. Ma questa volta i nuovi Rinaldo, Orlando e Angelica saranno i ragazzi di vita del Quadraro di Roma, protagonisti del film di finzione Viva la sposa, che proietteremo in anteprima, direttamente da Venezia, per la sezione “Sguardi di cinema”. Ce lo ricorderà, anche, Federico Rampini, che ringraziamo per aver accettato il nostro invito da New York. Gli chiederemo che ruolo hanno oggi l’Europa e l’America in questo nuovo assetto geopolitico, e se, con Piketty, pensa anche lui che un capitalismo meno disuguale sia ancora possibile. E Curzio Maltese, insieme a Stelios Kouloglou, giornalista, saggista e documentarista molto noto nel proprio paese, da poco membro del Parlamento europeo per Syriza, che ci presenterà in anteprima il suo H Nona, ritratto effervescente della “madrina” Angela Merkel.
Ma ce lo ricorderanno, soprattutto, i nove documentari che abbiamo scelto per il Concorso internazionale, e sottoposto a una giuria delocalizzata dei maggiori critici-giornalisti cinematografici della stampa italiana e internazionale, sul tema CONFLITTI E PERIFERIE.
Da sempre sosteniamo il documentario narrativo, la denuncia che si fa poesia, il documentario che si apre all’immaginazione. Ma questa volta, il viaggio che vi proponiamo ai bordi del mondo, tra Kazakistan, Auschwitz, Siria, Angola, Tanzania, il campo rom Tor de Cenci di Roma e le fredde periferie delle città europee, ha tutta la forza del grande cinema. “Ossessionati dal vero, distratti dal bello”: mai definizione, usata da Saviano per i documentari del nostro De Seta, è stata più calzante.
Abbiamo scelto il meglio dei documentari italiani ed europei dell’ultimo anno, che potessero farci riflettere, con un nuovo linguaggio espressivo, sul tema del conflitto e della periferia, pensando al pubblico, prima che agli addetti ai lavori. Cose belle mai viste, appunto, che nascono dal vero e al vero restano ancorate. Poco conta se il Festival di Torino o quello dei Popoli abbiano preso alcuni di questi film prima di noi (ma tre di questi, vogliamo dirlo, sono anteprime nazionali): i Festival nascono per far circolare i film che la gente non riesce a vedere in sala; nascono per dare visibilità agli invisibili. Anche per questo è nato il SalinaDocFest.
Ed ecco che all’improvviso noi, che avevamo chiuso gli occhi bombardati dalle immagini sempre-uguali della tv, ci siamo ritrovati dentro immagini diverse, oniriche, lontane dal documentario-réportage comunemente inteso. Siamo annegati dentro un mare in tempesta, naufraghi in mezzo a naufraghi, come il fantasma sopravvissuto al naufragio di Those Who Feel The Fire Burning.
Ci siamo risvegliati insieme a lui nelle fredde città europee, insieme a lui abbiamo camminato, ospiti smagati del mondo, nelle fredde periferie del nord: «per una volta [il documentario] non tratta il viaggio dell’immigrato, che attraversa il mare per entrare in Europa, con un occhio da cinema-verité, ma come viaggio onirico, poetico, rendendo omaggio ai tanti che sono morti in mare» (Lee Marshall).
Con Concerning Violence abbiamo riscoperto Frantz Fanon e le storiche responsabilità dell’Occidente verso quel sud del mondo che ora preme alle porte della nostra fortezza. «Un film necessario. Un saggio per immagini e parole (alla maniera di Guy Debord) che ripercorre in maniera illuminante le colpe dell’imperialismo e i processi di decolonizzazione dell’Africa» (Roberto Nepoti).
In questo caso la forza espressiva sta nel montaggio delle immagini fortissime di repertorio, un montaggio creativo, sospinto nel futuro dalla forza del passato, che chiede oggi di essere redento. In altri, il ritmo sincopato si distende nella fissità delle inquadrature e nella lentezza epifanica delle panoramiche, su uno sfondo astratto che richiama Magritte, come nel viaggio da Gerba a Lampedusa fino a Parigi in Brûle la mer. La finzione si mescola alla verità, perché la verità non è mai verosimile, quando incontra la storia di una famiglia rom in un antico convento di Bruxelles (Kosmos), o quando rischia di «portare…Shakespeare in Rom» (Boris Sollazzo) e di far rivivere l’eterno dramma di Romeo e Giulietta nei campi degradati di una periferia di Roma.
Abbiamo chiuso gli occhi di fronte alle immagini di Silvered Water, Syria Self-Portrait sulla guerra in Siria, ma quando li abbiamo riaperti, dopo averli stropicciati, abbiamo imparato a guardare meglio. Un attacco atroce all’occhio umano, che pone una riflessione necessaria sul cinema e sullo sguardo, sulla dialettica tra il caos delle immagini, di chi è sul luogo a testimoniare l’orrore della guerra, e lo stile del cinema, di chi, a distanza, è chiamato brechtianamente ad allontanare, straniare, sublimare, per non dimenticare.
Silvered Water passa la parola ai nuovi registi del presente, i martiri, con le loro immagini rubate, rotte, i corpi a terra, gli spari, le urla, con la loro urgenza di gridare subito la verità. Ma non dimentica di inserire questa materia incandescente entro la cornice metariflessiva del cinema, «alternando così – in un drammatico e contrastante risultato d’impatto – sangue e morte al lirismo dell’impotenza della distanza» (Federico Raponi).
Il documentario parla di se stesso e del suo rapporto con il cinema, del suo destino e della sua missione morale: portare con sé, come in un treno lanciato verso il futuro, le storie degli altri e testimoniarle al mondo, per ricordarci, ancora una volta, che anche in mezzo alla devastazione della guerra la voglia di raccontare e la ricerca della poesia possono superare la paura e il ricatto della violenza. E ancora Siria, con il sorprendente A Syrian Love Story del pluripremiato regista inglese Sean McAllister, una storia d’amore, di rivoluzione e di sacrificio, quello di una donna che ha scelto l’impegno e la rivoluzione sulla famiglia e sugli affetti, con tutto il dolore che questa scelta comporta. Sembra una finzione, ma è tutto vero.
Entriamo nelle vite di chi fugge dai propri paesi per venire da noi in Europa. Le viviamo dall’interno. Ci innamoriamo e soffriamo con loro, ci sentiamo parte della stessa famiglia: «il lavoro di Sean McAllister è un esempio di eccezionale livello su cosa significhi oggi realizzare un documentario, tra coinvolgimento personale e grandi storie» (Paola Nicita).
Ma i conflitti e le periferie sono anche interiori. Sono i conflitti vissuti dai giovani di oggi, che si sentono relegati ai margini dalla società e dalle responsabilità dei nostri padri. – Perché mi devo sentire incapace dalla mattina alla sera? Non sono capace. Non vedo motivazioni valide. Non vedo nel mondo che mi circonda delle motivazioni –. È Roberto che parla al fratello Danilo, in un lungo viaggio in treno verso Cracovia, e poi Auschwitz (Memorie. In viaggio verso Auschwitz).
Ha trenta anni, Roberto, non ha studiato, non si è laureato, non ha costruito una casa, non ha mai avuto un sogno. – Sì, sognavo, ma nel frattempo mi drogavo -. Il viaggio dei due fratelli si rivela così un viaggio metaforico, all’insegna del conflitto. Per Roberto la vita non ha significato, i nostri padri hanno sbagliato, lottare è inutile. Per Danilo, il regista, bisogna rimboccarsi le maniche e smettere di lamentarsi, dare un senso morale alle nostre esistenze. Senza il confronto con i padri non si fa la rivoluzione: così per il trentesimo compleanno del fratello, Danilo gli regala un viaggio, da lui sempre desiderato. Sarà lì, nei campi di Auschwitz, di fronte alla memoria storica, che i conflitti si dipaneranno e il senso del nostro destino si chiarirà. «Un flusso di coscienza – a quanto appare catturato segretamente – di rara violenza emotiva» (Silvana Silvestri), dove i destini generali si fondono con i destini personali: «anche questo un modo originale (pure nella forma) per illustrare i conflitti dal centro alla periferia e ritorno» (Maurizio Porro).
Un altro viaggio, ancora una volta tra culture e storie personali, è infine quello di Andrea Segre in Kazakistan, messo a confronto con il nostro paese (I sogni del lago salato). Due sogni malinconici, due mondi perduti. La nostra storia, la loro storia, la nostra infanzia, la loro infanzia; e quell’alba di Ecce bombo, con il sole che spuntava dall’altra parte. Ieri come oggi.
Sono passati molti anni da Ecce Bombo, che ha segnato così tanto la nostra vita, e che ancora ci parla del nostro presente e dei nostri sogni mancati. Per questo voglio chiudere con un grazie particolare a Nanni, che ricordo qui al campo di calcio di Lingua, quando eravamo piccoli. Un grazie a nome del SalinaDocFest e di tutta l’isola, che lo aspetta dai tempi di Caro Diario, e che ora lo rivedrà con un film che abbiamo amato tutti, Mia madre.
Un saluto alla mamma, ma soprattutto una confessione privata, dove il privato è anche pubblico, che ci riguarda tutti: il sospetto che per seguire il lavoro, le ambizioni, e la nostra disperata passione di essere al mondo, a volte ci dimentichiamo della vita, che nel frattempo fugge via.
Giovanna Taviani